mercoledì 23 maggio 2018

Morto Philip Roth, voce d’America

Morto Philip Roth, voce d’America

Addio allo scrittore più influente e complesso della letteratura contemporanea
Fu autore di opere come «Lamento di Portnoy» e «Pastorale americana»

di Cristina Taglietti
23 maggio 2018 (modifica il 23 maggio 2018 | 15:16)

La morte di Philip Roth, a poche settimane dall’annuncio dell’Accademia di Svezia (travolta dagli scandali) che il premio Nobel 2018 non verrà assegnato, sembra quasi l’ultimo sberleffo di un maestro che a quel riconoscimento è stato candidato quasi ogni anno a furor di popolo senza mai ottenerlo. Se n’è andato lo scrittore forse più influente e complesso della letteratura contemporanea, la voce che più di ogni altra ha saputo frugare con una sincerità spietata, umana ma mai consolatoria, nelle inquietudini della nostra epoca, smascherando ogni infingimento e nello stesso tempo scardinando le regole del romanzo.

Nato a Newark (New Jersey) nel 1933, figlio di una famiglia della piccola borghesia ebraica, Roth ha raccontato, con una forte carica espressiva che domina con assoluta maestria vari registri — dall’ironico al comico al grottesco — quella comunità con i suoi tipi umani, le sue leggende, i suoi pettegolezzi, e più in generale la specificità della condizione ebraica nel contesto dell’America di oggi. Uno sguardo unico, originale, che sarà un modello inarrivabile per molti epigoni, anche per la sua capacità di diventare, suo malgrado, uno scrittore mainstream.

Quella di Philip Roth è una produzione organica e sterminata: oltre trenta romanzi pubblicati in Italia da Einaudi e raccolti in tre Meridiani (il primo, curato da Elena Mortara, è uscito lo scorso novembre). L’esordio è nel 1959 quando, appena ventiseienne, pubblica la raccolta di sei racconti Addio, Columbus. È l’amico e collega Richard Stern, che come lui all’epoca insegna all’università di Chicago e che resterà sempre il suo maestro, a spingerlo a scrivere, dopo avere ascoltato il comico racconto di Roth di un’estate passata a corteggiare la ricca figlia di un commerciante ebreo nel New Jersey. Nasce così il racconto che dà il titolo al libro. La storia d’amore tra due ventenni serve da canovaccio per riflettere su quelli che diventeranno i suoi temi classici: il sesso, l’amore, la religione, le ipocrisie che costituiscono lo zoccolo duro della società americana. È nel 1969 che ottiene il primo grande successo (e il primo vero scandalo) con Il lamento di Portnoy, in cui racconta in modo esplicito la tragicomica conquista del piacere (soprattutto solitario) che un trentenne ebreo, voce narrante dalla grande potenza, destina al proprio psicanalista, interlocutore muto fino all’ultima pagina.Dal 1979 con Lo scrittore fantasma Roth affida le sue ossessioni al suo alter ego letterario più celebre, lo scrittore Nathan Zuckerman, l’esploratore dell’«egosfera» che invecchierà con lui, acquistando in lucidità e visione. Nel 1981 esce Zuckerman scatenato (il riferimento del titolo è al Prometeo liberato di Percy Shelley, e Roth scatenato sarà il titolo che Claudia Roth Pierponty darà alla biografia dello scrittore uscita nel 2014). Il romanzo traccia il ritratto dello scrittore che il successo distrugge, proprio perché tutti lo scambiano per l’eroe del suo libro. Ambientato negli anni degli assassinii di Bob Kennedy e di Martin Luther King, ritrae uno Zuckerman incapace di godersi il successo, ridotto a una vita quasi da recluso, temendo che qualcuno, dopo averlo etichettato come «nemico degli ebrei», decida di vendicarsi.

Zuckerman porta con sé tutta una serie di personaggi, come il fratello dentista, Henry, protagonista de La controvita (1986): deve sottoporsi a un intervento chirurgico che potrebbe renderlo impotente e chiede consiglio al fratello. Qui la scrittura offre diverse voci e diversi scenari e considerare le opzioni equivale a diverse possibilità di fare letteratura.

Osservatore attento e feroce della storia che si svolge intorno a sé, Zuckerman sarà presente, in forma più defilata, anche in quello che viene considerato il capolavoro di Roth, Pastorale americana, del 1997, dove lo scrittore affronta in modo più aperto i temi politico-sociali e che gli vale il premio Pulitzer. Pastorale americana è il primo titolo di una trilogia a cui seguono Ho sposato un comunista (dove Roth ritrae, senza farle sconti, la seconda moglie, Claire Bloom, un’attrice inglese per amore della quale lo scrittore aveva provato a vivere a Londra ) e La macchia umana, dove viene portata al culmine la crociata contro il moralismo puritano nella sua ultima deriva: il politicamente corretto («Noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per essere qui...»).

La produzione narrativa si ferma nel 2010 con Nemesi: qui Roth chiude il suo orizzonte al quartiere ebraico di Newark dove, nel luglio 1944, scoppia un’epidemia di poliomielite. Quasi un ritorno alle origini per quello che sarà il romanzo dell’addio. Al contrario di molti colleghi, abituati a una routine di lavoro stakanovista, Roth non ha mai nascosto che scrivere per lui fosse uno sforzo a cui dedicava non più di due ore al giorno. «Ho vissuto 50 anni in una stanza silenziosa come il fondo di una piscina, in preda a emozioni contrastanti in una tremenda solitudine» ha detto in una delle ultime interviste, pubblicata dal «New York Times» 

.Dopo aver smesso di scrivere (lo aveva annunciato nel 2012 in un’intervista al magazine «Les Inrockuptibles») Roth si divideva tra il villino nella campagna del Connecticut dove ha scritto molti dei suoi libri, e l’Upper West Side di New York. Convinto di aver composto ormai le sue opere migliori e che qualunque altro libro non sarebbe stato abbastanza buono, ha dato disposizione che i suoi archivi vengano distrutti.


CORRIERE DELLA SERA



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